Hugo Maradona:Non riusciì a superare il maestro
Hugo Hernán Maradona (Lanús, 9 maggio 1969)
Oggi vi parlerò non di un giocatore qualsiasi che ha avuto poca fortuna in Italia ma di un fratello d'arte, uno dei giocatori più forti visti nel nostro calcio Diego Armando Maradona, ma si sa in una famiglia ad avere i cloni del grande campione può essere uno solo e nella famiglia Maradona non era certo il piccolo Hugo Hernan ma conosciamolo meglio.
Se sei fratello d'arte hai vita dura a prescindere. Se sei il fratello del calciatore più forte al mondo è ancora peggio. Se in più sei raccomandato dal parente illustre allora hai già perso in partenza la sfida con la diffidenza. E nei confronti di Hugo Maradona era assolutamente legittima. È l'estate del 1987 e Diego Armando Maradona è senza se e senza ma il più grande calciatore in assoluto. Qualche mese prima ha portato il Napoli a vincere il primo storico scudetto e dodici mesi prima ha vinto praticamente da solo il mondiale. Il credito nei confronti del Napoli è tale che riesce a far sì che il club partenopeo acquisti il fratellino Hugo, all'epoca diciottenne. Di lui Diego spende parole importanti: "Diventerà più forte di me". La mamma precisa che la differenza fra i due fratelli è solo nel fatto che Diego sia mancino e Hugo destro. Sarà, ma se a 18 anni Maradona Senior segnava a valanga nell'Argentinos Juniors e già giocava nella nazionale maggiore, Hugo si ritrova con un curriculum piuttosto vuoto. Anch'egli esordisce con l'Argentinos, ma non raccoglie che una manciata di presenze segnando appena una rete. L'unico guizzo internazionale lo regala ai mondiali Under 16 giocati in Cina nel 1985, quando con una doppietta aiuta la Selección a battere il Congo in una sfida che non conterà nulla ai fini della qualificazione. Ma tant'è. Arriviamo al torneo 1987/88, le squadre di Serie A possono tesserare solo 2 stranieri e il Napoli oltre a Diego Maradona ha preso Antonio Careca. "Maradonino" dev'essere parcheggiato, in attesa di tornare alla base l'anno successivo, con l'apertura al terzo straniero. Pisa e Pescara, appena promosse, dicono "no, grazie" all'offerta dei partenopei per prendere il giocatore. A prendersi cura del ragazzotto ci pensa l'Ascoli di Costantino Rozzi. Hugo Maradona diventa così il più giovane straniero della Serie A dal dopoguerra. Ilario Castagner, tecnico dei marchigiani, spende buone parole per lui: "Possiede un ottimo controllo di palla che gli permette dribbling strettissimi e rapidi. Arriva in area in ottime condizioni per il tiro a rete. Sa dare bene anche la palla ai compagni, passaggi millimetrici e smarcanti. E non è male nemmeno il tiro: secco e preciso". Parole importanti, eppure il tecnico sin da subito lo considera una riserva. Hugo fa il suo esordio alla prima di campionato entrando negli ultimi 25' al posto di Domenico Agostini, la settimana dopo gioca mezz'ora al San Paolo nel derby con il fratello Diego. A metà ottobre Castagner gli da la chance da titolare e un numero pesante sulle spalle: il 10. Gioca contro l'Empoli dal 1', ma è un flop. Seconda possibilità due settimane dopo, al Del Duca contro il Verona: altra sostituzione a partita in corso. Terzo e ultimo tentativo ancora in casa questa volta contro il Pisa: bocciato anche qui. Da quel momento saranno solo spezzoni di gara a partita in corso, dove "Maradonino" a parte qualche colpo fine a sé stesso non incide minimamente. L'Ascoli anche senza il suo contributo si salva uguale, l'Italia si rende conto che il giocatore è inadeguato per la Serie A e dopo 13 gettoni di presenza in bianconero il Napoli riesce a piazzarlo in Spagna, al Rayo Vallecano. Una stagione, poi una parentesi in Austria prima di chiudere definitivamente la carriera europea. Dopo un anno in Venezuela si aprono le porte del campionato giapponese. Il tempo anche di una puntatina in Canada, prima di appendere le scarpe al chiodo a soli 28 anni, senza clamori e senza rimpianti, almeno per le squadre italiane.
martedì 30 aprile 2013
domenica 21 aprile 2013
Esnáider:Il pugile che sbagliò mestiere
Esnáider:Il pugile che sbagliò mestiere
Juan Eduardo Esnáider (Mar del Plata, 5 marzo 1973)
Oggi parleremo di un buon giocatore, dove in altri campionati sicuramente ha fatto discreti prestazioni, ma arrivato in Italia per sostituire nientemeno che sua Maestà Del Piero alla Juventus non è riuscito ad imporsi come tutti avrebbero voluto, sarà forse stato il peso di prendere sulle spalle un eredità troppo pesante, d'altronde in quel frangente che fece crack Del piero venne acquistato anche un certo Henry, anche lui non riusciì ad esprimersi al massimo,in quella squadra che andò allo sbando subito dopo il grave infortunio del suo uomo simbolo,finendo il campionato in una posizione di classifica tra le peggiori della storia della signora.
Ma conosciamolo meglio,debuttò tra i professionisti con il Ferro Carril Oeste il 2 settembre 1990 contro il Vélez Sársfield. Col club argentino giocò 6 partite.
Juan Eduardo Esnáider (Mar del Plata, 5 marzo 1973)
Oggi parleremo di un buon giocatore, dove in altri campionati sicuramente ha fatto discreti prestazioni, ma arrivato in Italia per sostituire nientemeno che sua Maestà Del Piero alla Juventus non è riuscito ad imporsi come tutti avrebbero voluto, sarà forse stato il peso di prendere sulle spalle un eredità troppo pesante, d'altronde in quel frangente che fece crack Del piero venne acquistato anche un certo Henry, anche lui non riusciì ad esprimersi al massimo,in quella squadra che andò allo sbando subito dopo il grave infortunio del suo uomo simbolo,finendo il campionato in una posizione di classifica tra le peggiori della storia della signora.
Ma conosciamolo meglio,debuttò tra i professionisti con il Ferro Carril Oeste il 2 settembre 1990 contro il Vélez Sársfield. Col club argentino giocò 6 partite.
Nel 1991 partecipò al Mondiale Under-20 disputato in Portogallo. In questa competizione aggredì in campo un avversario e ricevette una squalifica internazionale di un anno. Fu acquistato dal Real Madrid nel 1991, che lo fece crescere inizialmente nella squadra satellite del Real Madrid B. In Segunda División realizzò 18 gol in 44 partite ma di fatto non riuscì mai ad imporsi concretamente in prima squadra, segnando complessivamente 2 gol in 28 partite nelle file della squadra madrilena.
Trovando poco spazio al Real Madrid, fu ceduto al Real Saragozza, con cui vinse la Coppa del Re 1993-1994 e la Coppa delle Coppe 1994-1995, segnando una rete in finale e diventando capocannoniere del torneo.
Il Real Madrid quindi lo comprò di nuovo, ma dopo poco tempo passò all'Atlético de Madrid, dove ebbe un buon rendimento rovinato dalle sue pessime relazioni con il tecnico Radomir Antić che lo portarono ad abbandonare il club l'anno dopo per trasferirsi all'Espanyol. Una volta, sul pullman della squadra di Barcellona, prese a pugni il compagno di squadra Miguel Ángel Benítez perché aveva attaccato i compagni in pubblicO
Dopo due scudetti consecutivi, la Juventus si appresta ad affrontare la stagione 1998/99 da favorita d'obbligo. D'altronde con un Alessandro Del Piero fresco del boom nella stagione precedente, con 22 reti segnate, puoi star tranquillo. E poi Inzaghi, subito importante al primo anno in una big. E Zidane, fresco campione del mondo. Eppure i bianconeri dopo una buona partenza vanno a singhiozzo. La stagione prende una piega completamente diversa e l'8 novembre Del Piero al 92° della partita contro l'Udinese si infortuna gravemente al ginocchio sinistro. La diagnosi è impietosa: stagione finita. La Juventus deve correre ai ripari, anche perché con i soli Inzaghi e Fonseca non si possono affrontare 3 competizioni.
Arrivano due giocatori: l primo è un francese giovane, 21 anni, campione del mondo con la Francia: Thierry Henry. Il secondo è un giocatore ben più navigato, che solo tre anni prima aveva contribuito in maniera decisiva far vincere la Coppa delle Coppe al Saragoza: Juan Eduardo Esnaider. L'argentino in verità, dopo l'exploit in Aragona ha già avuto le sue chances nelle big, facendo decisamente male. Al Real Madrid è un disastro, riesce nell'impresa di segnare appena un gol in 20 partite. Ma si sa, un anno può andar male. E infatti l'anno dopo con la maglia dei cugini dell'Atletico si riprende. E anche all'Espanyol il suo lo fa. Così Moggi rompe gli indugi e a gennaio del 1999 lo acquista, sperando che tra lui ed Henry il buco lasciato da Del Piero possa essere colmato.
Esordisce giocando i secondi 45' contro il Venezia: non giudicabile. Le vere prove si vedono successivamente, quando Lippi lo lancia titolare. Il tecnico gli dà fiducia contro Perugia e Cagliari, l'argentino gioca 90' in entrambe le sfide e non combina nulla. Le gare seguenti la pazienza del tecnico inizia a scemare, complice una situazione non semplice dei bianconeri. È nell'undici titolare il 7 febbraio, quando la Juve cade a Torino sotto i colpi del Parma, costringendo Lippi alle dimissioni. Al posto del tecnico di Viareggio arriva Carlo Ancelotti, che insiste inizialmente anche lui su Esnaider. L'attaccante è un corpo estraneo alla squadra: abulico, lento, mai pericoloso. Ad aprile la pazienza è già esaurita e dopo aver giocato in maniera pessima i primi 45' contro l'Empoli Ancelotti lo toglie e non lo schiererà più titolare. A fine stagione collezionerà 10 presenze, senza nemmeno la soddisfazione di un gol. Resterà anche la stagione seguente, ma il suo contributo sarà limitato ai minimi termini: 6 presenze, di cui 5 d subentrato, quasi sempre per giocare gli ultimi 5 minuti di gara. Una vera umiliazione, che può bastare per fargli dire addio a fine stagione. Andrà al Porto, prima di pellegrinare tra Argentina, Francia e Spagna. La Juventus, ironia del destino, riprenderà di nuovo a vincere.
NOTIZIA DEGLI ULTIMI MESI PURTROPPO, ESNAIDER è TORNATO ALLA RIBALTA STAVOLTA NON PER LE SUE VICENDE SUL CAMPO, MA PER LA TRAGICA MORTE DEL FIGLIO DI 17 ANNI FERNANDO ARRESOSI DOPO UNA LUNGA MALATTIA,TUTTI NOI DELLA TESTATA SIAMO VICINI AL DOLORE CHE HA COLPITO LO SFORTUNATO JUAN EDUARDO ESNAIDER PER LA IMPROVVISA SCOMPARSA DEL FIGLIO FERNANDO.
domenica 14 aprile 2013
Karic:La fotocopia di Boksic
Karic:La fotocopia di Boksic
Veldin Karić (Slavonski Brod, 16 novembre 1973)
Oggi vi parlerò di un giocatore croato arrivato al Torino nell'anno in cui questa nobile decaduta è iniziato il declino verso le zone più basse della sua storia, una società presa di mira da fantomatici presidenti,portando questa squadra che fu di Valentino Mazzola(il grande Torino) e poi di Zaccarelli sui campi più impensabili dell'Italia(Castel di Sangro,Gallipoli,Castellammare di Stabia Portogruaro ecc...) togliendo la dignità che pian piano con l'avvento di Cairo si sta ristabillendo, ma ricordiamo e dall'anno 1995/96 che questa squadra non riesce a rientrare nelle zone alte della classifica, dove sicuramente gli compete.
Dicevamo partì male il campionato del Toro con l'acquisto del Turco Hakan Sukur di cui già vi ho parlato,preso come colpo dell'estate e rispedito al mittente dopo solo 5 gare disputate, la nostalgia lo richiamava, troppo giovane per allontanarsi da casa, ma anche quando fu maturo non è che era tanto adatto ad altri campionati, facendo la fortuna soltanto nella sua Turchia.
Dopo la gugace avventura del Turco il Toro pensò bene di prendere un promessa del calcio croato,Veldin Karic sbucò dal nulla, in effetti: poco movimento e utilità irrisoria per la manovra per la sua squadra facevano di lui un ottimo erede del turco. Non a caso, il suo fu un acquisto low-cost: poco più di 100 milioni al Marsonia e appena 50 di ingaggio per l’attaccante, che però, venendo dalla guerra, quella che ha ha dilaniato l'ex Jugoslavia, per lui suonavano come miliardi. E se chiunque avrebbe sdegnosamente rifiutato la “splendida” Golf vecchia di dieci anni che la società gli mise a disposizione per la propria mobilità, Karic credeva di viaggiare con una Cadillac nuova fiammante: bastava poco per un giovanotto che aveva passato molte sofferenze, tra cui il famigerato campo profughi che aveva duramente segnato il suo volto. Di origine bosniaca, questo musulmano dai capelli lunghi fu acquistato durante il mercato di riparazione e quindi presentato il 1 Novembre 1995 (quasi in concomitanza con la commemorazione dei defunti, che allegria). In quella tribolata stagione – che si concluse con la retrocessione in Serie B – giocò appena 5 gare segnando un solo gol in un Bari-Torino terminato 2-2, dimostrandosi anch’esso, come il suo (illustre?) predecessore, inadatto ai ritmi del calcio italiano. Una curiosità: giocò le stesse partite e segnò una sola rete, e proprio contro i “galletti”, esattamente come Hakan. Se il loro rendimento in granata fu quasi perfettamente identico, diversa fu l’esecuzione: rete di testa per il turco, rasoterra sinistro per il croato. Con il Bari vittima sbeffeggiata. Dopo la retrocessione, ancora sotto contratto, venne spedito nella vicina Svizzera, al modesto Lugano. L’estate seguente, quella del 1997, fu nuovamente impacchettato e mandato allo Stoccarda, in Germania. Nell’Agosto del 1998, ritornato dall’ennesimo prestito, fu nuovamente girato all’estero, al Varteks, nella Serie A croata. Giocò anche tre gare con la Nazionale della Croazia, ma nel 2003 fu multato e sospeso dal Varteks dopo che si rifiutò di giocare una partita di Coppa. Aveva forse preso coscienza della sua carenza di mezzi tecnici? Del resto, non è che provenisse da squadre blasonate: il suo manager, Naie Naletilic, definì il Marsonia di Slavonsky Brad, “una specie di Cremonese”. Con il Torino in Serie B, la sua presenza era divenuta ingombrante: la sua cessione definitiva liberò un posto per un extracomunitario, che però venne occupata da un’altra mezza figura, l’uruguayano Gaglianone. Per i granata è stato come passare dalla padella alla brace.
ecco alcune dichiarazioni al suo arrivo dal compianto professore Scoglio:«Assomiglia un po’ a Boksic, ha qualita’ notevoli e tocca a me saperle esaltare. Lui deve metterci attenzione e partecipazione e, soprattutto, capire che non e’ un esule ne’ un corpo estraneo»e ancora:«E’ piu’ potente ma ha meno senso tattico di Fontolan. Il croato ha qualita’ tecniche interessantissime, con enormi margini di miglioramento e, utilizzato in uno schema fondato sul 4-4-2, puo’ diventare un grande esterno sulla fascia sinistra. E’ facile pronosticargli, a tempi brevi, una promozione nella sua Nazionale maggiore, magari gia’ ai prossimi Europei inglesi»
La dimostrazione che il professore era un tipo veramente simpatico.
Veldin Karić (Slavonski Brod, 16 novembre 1973)
Oggi vi parlerò di un giocatore croato arrivato al Torino nell'anno in cui questa nobile decaduta è iniziato il declino verso le zone più basse della sua storia, una società presa di mira da fantomatici presidenti,portando questa squadra che fu di Valentino Mazzola(il grande Torino) e poi di Zaccarelli sui campi più impensabili dell'Italia(Castel di Sangro,Gallipoli,Castellammare di Stabia Portogruaro ecc...) togliendo la dignità che pian piano con l'avvento di Cairo si sta ristabillendo, ma ricordiamo e dall'anno 1995/96 che questa squadra non riesce a rientrare nelle zone alte della classifica, dove sicuramente gli compete.
Dicevamo partì male il campionato del Toro con l'acquisto del Turco Hakan Sukur di cui già vi ho parlato,preso come colpo dell'estate e rispedito al mittente dopo solo 5 gare disputate, la nostalgia lo richiamava, troppo giovane per allontanarsi da casa, ma anche quando fu maturo non è che era tanto adatto ad altri campionati, facendo la fortuna soltanto nella sua Turchia.
Dopo la gugace avventura del Turco il Toro pensò bene di prendere un promessa del calcio croato,Veldin Karic sbucò dal nulla, in effetti: poco movimento e utilità irrisoria per la manovra per la sua squadra facevano di lui un ottimo erede del turco. Non a caso, il suo fu un acquisto low-cost: poco più di 100 milioni al Marsonia e appena 50 di ingaggio per l’attaccante, che però, venendo dalla guerra, quella che ha ha dilaniato l'ex Jugoslavia, per lui suonavano come miliardi. E se chiunque avrebbe sdegnosamente rifiutato la “splendida” Golf vecchia di dieci anni che la società gli mise a disposizione per la propria mobilità, Karic credeva di viaggiare con una Cadillac nuova fiammante: bastava poco per un giovanotto che aveva passato molte sofferenze, tra cui il famigerato campo profughi che aveva duramente segnato il suo volto. Di origine bosniaca, questo musulmano dai capelli lunghi fu acquistato durante il mercato di riparazione e quindi presentato il 1 Novembre 1995 (quasi in concomitanza con la commemorazione dei defunti, che allegria). In quella tribolata stagione – che si concluse con la retrocessione in Serie B – giocò appena 5 gare segnando un solo gol in un Bari-Torino terminato 2-2, dimostrandosi anch’esso, come il suo (illustre?) predecessore, inadatto ai ritmi del calcio italiano. Una curiosità: giocò le stesse partite e segnò una sola rete, e proprio contro i “galletti”, esattamente come Hakan. Se il loro rendimento in granata fu quasi perfettamente identico, diversa fu l’esecuzione: rete di testa per il turco, rasoterra sinistro per il croato. Con il Bari vittima sbeffeggiata. Dopo la retrocessione, ancora sotto contratto, venne spedito nella vicina Svizzera, al modesto Lugano. L’estate seguente, quella del 1997, fu nuovamente impacchettato e mandato allo Stoccarda, in Germania. Nell’Agosto del 1998, ritornato dall’ennesimo prestito, fu nuovamente girato all’estero, al Varteks, nella Serie A croata. Giocò anche tre gare con la Nazionale della Croazia, ma nel 2003 fu multato e sospeso dal Varteks dopo che si rifiutò di giocare una partita di Coppa. Aveva forse preso coscienza della sua carenza di mezzi tecnici? Del resto, non è che provenisse da squadre blasonate: il suo manager, Naie Naletilic, definì il Marsonia di Slavonsky Brad, “una specie di Cremonese”. Con il Torino in Serie B, la sua presenza era divenuta ingombrante: la sua cessione definitiva liberò un posto per un extracomunitario, che però venne occupata da un’altra mezza figura, l’uruguayano Gaglianone. Per i granata è stato come passare dalla padella alla brace.
ecco alcune dichiarazioni al suo arrivo dal compianto professore Scoglio:«Assomiglia un po’ a Boksic, ha qualita’ notevoli e tocca a me saperle esaltare. Lui deve metterci attenzione e partecipazione e, soprattutto, capire che non e’ un esule ne’ un corpo estraneo»e ancora:«E’ piu’ potente ma ha meno senso tattico di Fontolan. Il croato ha qualita’ tecniche interessantissime, con enormi margini di miglioramento e, utilizzato in uno schema fondato sul 4-4-2, puo’ diventare un grande esterno sulla fascia sinistra. E’ facile pronosticargli, a tempi brevi, una promozione nella sua Nazionale maggiore, magari gia’ ai prossimi Europei inglesi»
La dimostrazione che il professore era un tipo veramente simpatico.
giovedì 11 aprile 2013
Darko Pančev:Il cobra senza veleno
Darko Pančev:Il cobra senza veleno
Darko Pančev (Skopje, 7 settembre 1965)
Ecco oggi parliamo uno dei tantissimi giocatori bidoni acquistati dall'Inter che ci donato tantissimi giocatori non all'altezza della situazione per una maglia gloriosa qual'è quella nerazzurra, sicuramente questa squadra è stata bersagliata da tantissimi dirigenti non all'altezza della situazione, e per via di questi giocatori che la squadra nerazzurra ha dovuto per molti campionati arrancare nelle posizioni più modeste della classifica, poi con l'arrivo del presidente Moratti addirittura si sono visti persino giocatori al quanto imbarazzanti, ma questo che parliamo oggi non è un prodotto dell'era Moratti.
Pancev, attaccante puro, esordì nella locale squadra del Vardar nella stagione 1982/83, e lì restò fino al 1988, anno in cui fu acquistato dalla Stella Rossa di Belgrado. In quella squadra giocò quattro anni, arrivando a vincere nel 1991 la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale, oltre a segnare qualcosa come 84 gol. Un dato impressionante. L’Inter, in crisi nel reparto offensivo, optò per l’acquisto del centravanti slavo, che arrivò così a Milano per 14 miliardi di Lire allo scopo di rinforzare un organico così composto (la seguente è una formazione-tipo del 1992): Zenga, Bianchi, Bergomi, Battistini, Ferri, De Agostini, Shalimov, Sammer, Berti, Schillaci e... Pancev. Osvaldo Bagnoli disse di lui: «Dite che con Pancev bisogna avere pazienza perché è macedone? Sarà... ma io sono della Bovisa e non sono mica un pirla!». Difficile dargli torto: in 12 presenze, Darko segnò la bellezza di un misero gol, ma in compenso furono tanti e clamorosi quelli falliti, alcuni a due metri dalla porta avversaria. I fatti dettero ragione all’allenatore. Ceduto per disperazione al Lipsia, in Germania, nel Gennaio del 1994, tornò in Italia la stagione successiva, in tempo per giocare fino alla fine del campionato (7 presenze, 2 gol). Finì i suoi giorni (sportivi ovviamente) al Sion, nel 1997. Da quando ha appeso le scarpe al chiodo, si è dedicato all’attività di procuratore, poi ha collaborato con il club locale del Vardar Skopje. E’ stato anche tra i candidati per la carica di allenatore della Nazionale macedone. Nel Luglio del 2007 Platini gli ha consegnato la “Scarpa d’Oro” a lui negata nel 1991: all’epoca la Federazione di Cipro segnalò un giocatore sconosciuto che avrebbe segnato ben 40 gol, ma alla lunga si è scoperto che c’era qualcosa che non andava e quindi, anche se dopo tanto tempo, hanno deciso di premiare chi effettivamente aveva meritato di vincere quest’ambito premio. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Anche se, in ogni caso, in Italia sarà per sempre ricordato come una delle “bufale” più clamorose.
Poco dopo fece alcune dichiarazione riguardante la sua esperienza:«L’Inter è stata il più grande sbaglio della mia vita - si rammarica -, per colpa dell’Italia ho chiuso presto la carriera (smise a 32 anni dopo dimenticabili esperienze al Fortuna Dusseldorf in Germania e al Sion in Svizzera, ndr)». Perché, Darko? «Nel ’91 mi volevano Milan, Barcellona, Manchester United, Real Madrid. Ero l’attaccante più ricercato e finii all’Inter, che praticava un calcio difensivo e mi offriva al massimo due occasioni a partita. Io potevo funzionare in un club con uno stile definito, non all’Inter. Voi mi giudicate "bidone", ma dovreste dire lo stesso di Shevchenko, che al Chelsea non fa più gol perché sta in una squadra che pensa a non prenderle». Pancev come Sheva? Dai, Cobra, ora non esageriamo.
Darko Pančev (Skopje, 7 settembre 1965)
Ecco oggi parliamo uno dei tantissimi giocatori bidoni acquistati dall'Inter che ci donato tantissimi giocatori non all'altezza della situazione per una maglia gloriosa qual'è quella nerazzurra, sicuramente questa squadra è stata bersagliata da tantissimi dirigenti non all'altezza della situazione, e per via di questi giocatori che la squadra nerazzurra ha dovuto per molti campionati arrancare nelle posizioni più modeste della classifica, poi con l'arrivo del presidente Moratti addirittura si sono visti persino giocatori al quanto imbarazzanti, ma questo che parliamo oggi non è un prodotto dell'era Moratti.
Pancev, attaccante puro, esordì nella locale squadra del Vardar nella stagione 1982/83, e lì restò fino al 1988, anno in cui fu acquistato dalla Stella Rossa di Belgrado. In quella squadra giocò quattro anni, arrivando a vincere nel 1991 la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale, oltre a segnare qualcosa come 84 gol. Un dato impressionante. L’Inter, in crisi nel reparto offensivo, optò per l’acquisto del centravanti slavo, che arrivò così a Milano per 14 miliardi di Lire allo scopo di rinforzare un organico così composto (la seguente è una formazione-tipo del 1992): Zenga, Bianchi, Bergomi, Battistini, Ferri, De Agostini, Shalimov, Sammer, Berti, Schillaci e... Pancev. Osvaldo Bagnoli disse di lui: «Dite che con Pancev bisogna avere pazienza perché è macedone? Sarà... ma io sono della Bovisa e non sono mica un pirla!». Difficile dargli torto: in 12 presenze, Darko segnò la bellezza di un misero gol, ma in compenso furono tanti e clamorosi quelli falliti, alcuni a due metri dalla porta avversaria. I fatti dettero ragione all’allenatore. Ceduto per disperazione al Lipsia, in Germania, nel Gennaio del 1994, tornò in Italia la stagione successiva, in tempo per giocare fino alla fine del campionato (7 presenze, 2 gol). Finì i suoi giorni (sportivi ovviamente) al Sion, nel 1997. Da quando ha appeso le scarpe al chiodo, si è dedicato all’attività di procuratore, poi ha collaborato con il club locale del Vardar Skopje. E’ stato anche tra i candidati per la carica di allenatore della Nazionale macedone. Nel Luglio del 2007 Platini gli ha consegnato la “Scarpa d’Oro” a lui negata nel 1991: all’epoca la Federazione di Cipro segnalò un giocatore sconosciuto che avrebbe segnato ben 40 gol, ma alla lunga si è scoperto che c’era qualcosa che non andava e quindi, anche se dopo tanto tempo, hanno deciso di premiare chi effettivamente aveva meritato di vincere quest’ambito premio. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Anche se, in ogni caso, in Italia sarà per sempre ricordato come una delle “bufale” più clamorose.
Poco dopo fece alcune dichiarazione riguardante la sua esperienza:«L’Inter è stata il più grande sbaglio della mia vita - si rammarica -, per colpa dell’Italia ho chiuso presto la carriera (smise a 32 anni dopo dimenticabili esperienze al Fortuna Dusseldorf in Germania e al Sion in Svizzera, ndr)». Perché, Darko? «Nel ’91 mi volevano Milan, Barcellona, Manchester United, Real Madrid. Ero l’attaccante più ricercato e finii all’Inter, che praticava un calcio difensivo e mi offriva al massimo due occasioni a partita. Io potevo funzionare in un club con uno stile definito, non all’Inter. Voi mi giudicate "bidone", ma dovreste dire lo stesso di Shevchenko, che al Chelsea non fa più gol perché sta in una squadra che pensa a non prenderle». Pancev come Sheva? Dai, Cobra, ora non esageriamo.
domenica 7 aprile 2013
Andreas Andersson:Il biondino che amava i fumetti
Andreas Andersson:Il biondino che amava i fumetti
Andreas Andersson (Stoccolma, 10 aprile 1974)
Oggi parliamo di un altro bidone del Milan, un ragazzo svedese arrivato sotto la madonnina per far vedere il suo valore che mai è riuscito però ad affermarsi, anche perchè quel Milan non era certo una macchina da guerra e forse il biondino svedese ebbe la sfortuna di arrivare al Milan proprio in contemporanea con la crisi della squadra rossonera ma conosciamolo meglio.
Andreas Andersson nasce il 10 Aprile 1974 a Nacka, sobborgo di Stoccolma, e inizia a giocare a calcio nel piccolissimo club dell'Hova, quinta divisione svedese, là dove non arrivano né taccuini né telecamere. Dopo quattro anni di gavetta, nel 1994 si trasferisce al Tidaholms, seconda divisione, dove si consacra definitivamente. Qui nelle prime 9 partite mette a segno 6 reti: una media straordinaria per un semi-esordiente, e ai dirigenti del Degerfors - serie A, finalmente! - tanto basta per prenderlo dopo poche settimane dal suo trasferimento, andando a rinforzare una squadra appena eliminata dalla Coppa delle Coppe per mano del Parma, che poi perderà in finale con l'Arsenal. Insieme ad Andersson arriva anche Olof Mellberg. Il nostro Andreas gioca bene e segna a raffica: su di lui piomba il Liverpool, che lo invita per un provino di una settimana. La sorte vuole che in quei sette giorni sulla cittadina britannica si abbatta uno dei più forti nubifragi di sempre: la pioggia, con l'aggiunta di un infortunio, condiziona le sorti del provino, che dunque non va a buon fine. L'attaccante lascia ugualmente il Degerfors (in due anni, 40 partite giocate e 16 gol all'attivo) e nel 1996 trova l'accordo con il Göteborg. Contemporaneamente, anche la Nazionale svedese si accorge di lui: dopo aver già militato nell'Under 21, il 25 febbraio '96 Andersson fa coincidere il suo esordio con la vittoria per 2-0 contro l'Australia. Con il Göteborg le cose vanno a gonfie vele: la squadra ben figura in campionato e in Champions League, e alla fine della stagione il potente centravanti si ritroverà con un bottino di 31 reti in 39 partite, quasi un record. Ovviamente è sua la palma di capocannoniere del torneo, nonché il titolo di giocatore svedese dell'anno. La sua Nazionale fallisce la qualificazione agli Europei di Inghilterra, ma anche senza questa vetrina il nome di Andreas Andersson fa il giro del mondo e comincia ad entrare nelle cronache di mercato. Se lo aggiudica il Milan, per la cifra tutto sommato abbastanza modica - per quei tempi - di tre miliardi di lire. In realtà lui simpatizza per la Roma, ma fa poca differenza: è un pupillo di Fabio Capello, storicamente attratto dagli attaccanti possenti (qualche anno dopo si innamorerà del connazionale Ibrahimovic e di Diego Tristan). Si sa che anche i grandi allenatori possono avere qualche abbaglio... Andersson si presenta a Milano il 13 Giugno 1997: sostiene le visite mediche, va a cena con Galliani, e poi riparte per la Svezia per godersi le meritate vacanze estive. Il 16 luglio, insieme ai compagni, si mette agli ordini di Fabio Capello; curiosamente, non viene presentato in maniera ufficiale alla stampa. Scontata la sua prima dichiarazione informale: "Felicissimo di giocare in Italia e nel Milan". Confessa poi di aver scelto i rossoneri anche per la presenza del suo amico Jesper Blomqvist, arrivato a gennaio proprio dal Göteborg; per chi non lo ricordasse, il biondo centrocampista svedese fu un'altra meteora di proporzioni colossali, passato successivamente per Parma e - udite udite! - Manchester United. Quando Andersson scopre che la società sta cercando di piazzare a tutti i costi sul mercato il suo amico e unico connazionale, ci rimane un po' male: non sa che il primo a lasciare il club rossonero sarà lui stesso. Il Milan è chiamato a riscattare una stagione, quella 96/97, davvero disastrosa: i meneghini erano arrivati a soli 6 punti dalla retrocessione, pagando scelte di mercato insensate come Cristophe Dugarry e Micheal Reiziger. Nell'estate '97 il primo acquisto è Patrick Kluivert, voluto da Capello per formare una coppia solida con George Weah; in attacco, oltre ad Andersson, c'è anche Maurizio Ganz, preso dall'Inter e partente come riserva. Gli altri reparti abbondano di meteore: solo in difesa Ziege, Nilsen, Cruz, Bogarde e Smoje. La stagione, manco a dirlo, inizia in maniera disastrosa: 2 punti nelle prime 4 partite. La prima vittoria arriva in trasferta contro l'Empoli, e curiosamente coincide con la prima segnatura di Andersson in rossonero: al minuto 23 della ripresa lo svedese gonfia la rete. Sarà questo l'unico gol ufficiale dell'attaccante nella sua breve esperienza italiana. In campionato non gioca quasi mai - Capello gli preferisce un non meno legnoso Kluivert - ma in compenso è titolare in Coppa Italia. Al debutto contro la Reggiana (sedicesimi di finale) è il peggiore in campo, contro la Sampdoria (ottavi) gioca i primi 45 minuti, che si concludono con il risultato di 2-0 per i blucerchiati: poi Weah gli dà il cambio, e il Milan vince 3-2. Fa in tempo poi a partecipare, anche se non nel tabellino marcatori, allo storico 5-0 rifilato all'Inter ai quarti di finale. Per ritrovare un altro gol di Andersson dobbiamo insomma andare a ricercare nelle amichevoli: qualche tifoso rossonero lo ricorderà tra i marcatori nell'8-0 al Ginosa di Puglia, all'Arena di Milano, il 24 ottobre. In quella occasione Galliani afferma: "Per il Milan è il momento peggiore degli ultimi 10 anni". Con buona pace di Carolina Morace, all'epoca opinionista tv su TMC e grande sostenitrice del giocatore, la società a gennaio mette Andersson sul mercato, e subito si scatena una bagarre a suon di miliardi tra Arsenal e Chelsea. Alla fine però se lo accaparra il Newcastle per circa 9 miliardi di lire: una buona plusvalenza, non c'è che dire. Il Milan all'ultimo momento prende al suo posto Pippo Maniero - non proprio un fenomeno, ma ha sempre fatto il suo dovere - e Braida, a chi gli chiede il perché di una coppia d'attacco (Ganz-Maniero) non proprio da Champions League, risponde nervoso: "Solo chi non conosce il calcio può porre la questione in questi termini. La verità è che ad inizio stagione la coppia Kluivert-Weah era considerata, da tutti, come eccellente. Chi poteva prevedere che non avrebbero reso secondo le aspettative?". Già, chi poteva prevedere... Giunto al Newcastle in compagnia della fidanzata Lina Gustavsson, Andersson inizia a sparare a zero - com'è consuetudine - contro la sua ex squadra. Accusa Capello di essere una sorta di "generale di ferro", e di avere imposto allo spogliatoio una disciplina troppo rigida: inoltre gli rimprovera di non avergli mai concesso la possibilità di dimostrare davvero le sue capacità. Ma il passato è passato: il futuro al Newcastle invece sembra roseo, anche perché il feeling con mister Kenny Dalglish è subito molto buono. Il tecnico scozzese è convinto che lo svedese possa inserirsi con rapidità negli spazi creati dalla torre Shearer, osservato speciale dai difensori avversari. Il giocatore, da parte sua, spera di riuscire a riconquistarsi la convocazione in Nazionale: è infatti finito sul banco degli imputati dopo la mancata qualificazione a Francia '98, a scapito di Austria e Scozia. L'esordio in Premier League è datato 1 Febbraio 1998, 2-0 contro l'Aston Villa. Le grandi aspettative, tuttavia, vengono in parte tradite: Andersson in due anni segna solo 4 gol in 27 partite, e il Newcastle - dove milita pure Tomasson, ignaro di fare più o meno la stessa sorte del compagno d'attacco - arranca in classifica. Nella stagione 97/98 finisce tredicesimo, e stesso piazzamento anche l'anno successivo. Per Andersson si profila un ritorno a casa, precisamente all'AIK Stoccolma, club che nella stagione 1999/2000 milita anche in Champions League e viene inserito nello stesso girone della Fiorentina (gli svedesi arrivano ultimi con 1 solo punto all'attivo, conquistato proprio in casa contro i viola, e conquistano la palma di peggior squadra del torneo). Andersson, pagato 2 milioni di sterline, snobbato dalla propria Nazionale - tanto che salterà l'appuntamento con gli Europei del 2000 - a gennaio tenta anche la carta Benfica (una sola rete all'attivo fino a giugno), dopodichè si arrende e ritorna a Stoccolma dove rimane per 3 anni, insieme all'amico Teddy Lucic. Ma il pur blasonato club in quel periodo non si porta a casa neanche un misero trofeo. Nell'estate del 2002 finalmente arriva la grande occasione: coach Soderberg gli concede una chance per i Mondiali di Corea e Giappone, competizione guadagnata anche grazie ad un gol di Andersson, nel match decisivo contro la Turchia durante le qualificazioni. Ma la Svezia, pur passando la fase a gironi alle spalle dell'Inghilterra, viene subito eliminata agli ottavi dalla matricola Senegal: il nostro Andreas, ormai impiegato come ala piuttosto che come punta, viene utilizzato sempre come sostituto in corsa e appare piuttosto evanescente. Si interrompe qui il suo rapporto con la Nazionale: non viene convocato per gli Europei del 2004 a causa dei postumi di un infortunio ai legamenti del ginocchio. In tale occasione il fisioterapista della Nazionale svedese, Anders Vallentin, afferma preoccupato: "E' difficile dire quando rientrerà, perché il danno è grave e vari calciatori hanno dovuto smettere per una situazione del genere". Contrariamente alle previsioni, Andersson si rimette invece in pista, e nonostante l'esclusione dalla competizione europea in estate si reca ugualmente in Portogallo. A sorpresa, infatti, trova l'accordo con il Belenenses, squadra di Lisbona, ma anche qui il feeling con la piazza non è dei migliori. Nel giugno 2005 tenta l'avventura con il Malmöe, ma dura solo un mese: il 1 agosto comunica alla stampa la sua intenzione di lasciare il calcio giocato, a causa dei ripetuti problemi fisici. Entrerà a far parte, dice, dello staff tecnico dell'AIK Stoccolma. Finirà nel dimenticatoio anche in patria, come vi è finito in Italia? Forse, ma gli appassionati di calcio svedese ricorderanno a vita la sua espressione sbigottita nel vedere un bagno chimico cadere su un'auto in cui credeva ci fosse qualcuno. Questo lo scherzo a cui fu sottoposto dallo staff della trasmissione televisiva "Bllasningen" (il nostro "Scherzi a parte"). Roba da morire dal ridere.
Andreas Andersson (Stoccolma, 10 aprile 1974)
Oggi parliamo di un altro bidone del Milan, un ragazzo svedese arrivato sotto la madonnina per far vedere il suo valore che mai è riuscito però ad affermarsi, anche perchè quel Milan non era certo una macchina da guerra e forse il biondino svedese ebbe la sfortuna di arrivare al Milan proprio in contemporanea con la crisi della squadra rossonera ma conosciamolo meglio.
Andreas Andersson nasce il 10 Aprile 1974 a Nacka, sobborgo di Stoccolma, e inizia a giocare a calcio nel piccolissimo club dell'Hova, quinta divisione svedese, là dove non arrivano né taccuini né telecamere. Dopo quattro anni di gavetta, nel 1994 si trasferisce al Tidaholms, seconda divisione, dove si consacra definitivamente. Qui nelle prime 9 partite mette a segno 6 reti: una media straordinaria per un semi-esordiente, e ai dirigenti del Degerfors - serie A, finalmente! - tanto basta per prenderlo dopo poche settimane dal suo trasferimento, andando a rinforzare una squadra appena eliminata dalla Coppa delle Coppe per mano del Parma, che poi perderà in finale con l'Arsenal. Insieme ad Andersson arriva anche Olof Mellberg. Il nostro Andreas gioca bene e segna a raffica: su di lui piomba il Liverpool, che lo invita per un provino di una settimana. La sorte vuole che in quei sette giorni sulla cittadina britannica si abbatta uno dei più forti nubifragi di sempre: la pioggia, con l'aggiunta di un infortunio, condiziona le sorti del provino, che dunque non va a buon fine. L'attaccante lascia ugualmente il Degerfors (in due anni, 40 partite giocate e 16 gol all'attivo) e nel 1996 trova l'accordo con il Göteborg. Contemporaneamente, anche la Nazionale svedese si accorge di lui: dopo aver già militato nell'Under 21, il 25 febbraio '96 Andersson fa coincidere il suo esordio con la vittoria per 2-0 contro l'Australia. Con il Göteborg le cose vanno a gonfie vele: la squadra ben figura in campionato e in Champions League, e alla fine della stagione il potente centravanti si ritroverà con un bottino di 31 reti in 39 partite, quasi un record. Ovviamente è sua la palma di capocannoniere del torneo, nonché il titolo di giocatore svedese dell'anno. La sua Nazionale fallisce la qualificazione agli Europei di Inghilterra, ma anche senza questa vetrina il nome di Andreas Andersson fa il giro del mondo e comincia ad entrare nelle cronache di mercato. Se lo aggiudica il Milan, per la cifra tutto sommato abbastanza modica - per quei tempi - di tre miliardi di lire. In realtà lui simpatizza per la Roma, ma fa poca differenza: è un pupillo di Fabio Capello, storicamente attratto dagli attaccanti possenti (qualche anno dopo si innamorerà del connazionale Ibrahimovic e di Diego Tristan). Si sa che anche i grandi allenatori possono avere qualche abbaglio... Andersson si presenta a Milano il 13 Giugno 1997: sostiene le visite mediche, va a cena con Galliani, e poi riparte per la Svezia per godersi le meritate vacanze estive. Il 16 luglio, insieme ai compagni, si mette agli ordini di Fabio Capello; curiosamente, non viene presentato in maniera ufficiale alla stampa. Scontata la sua prima dichiarazione informale: "Felicissimo di giocare in Italia e nel Milan". Confessa poi di aver scelto i rossoneri anche per la presenza del suo amico Jesper Blomqvist, arrivato a gennaio proprio dal Göteborg; per chi non lo ricordasse, il biondo centrocampista svedese fu un'altra meteora di proporzioni colossali, passato successivamente per Parma e - udite udite! - Manchester United. Quando Andersson scopre che la società sta cercando di piazzare a tutti i costi sul mercato il suo amico e unico connazionale, ci rimane un po' male: non sa che il primo a lasciare il club rossonero sarà lui stesso. Il Milan è chiamato a riscattare una stagione, quella 96/97, davvero disastrosa: i meneghini erano arrivati a soli 6 punti dalla retrocessione, pagando scelte di mercato insensate come Cristophe Dugarry e Micheal Reiziger. Nell'estate '97 il primo acquisto è Patrick Kluivert, voluto da Capello per formare una coppia solida con George Weah; in attacco, oltre ad Andersson, c'è anche Maurizio Ganz, preso dall'Inter e partente come riserva. Gli altri reparti abbondano di meteore: solo in difesa Ziege, Nilsen, Cruz, Bogarde e Smoje. La stagione, manco a dirlo, inizia in maniera disastrosa: 2 punti nelle prime 4 partite. La prima vittoria arriva in trasferta contro l'Empoli, e curiosamente coincide con la prima segnatura di Andersson in rossonero: al minuto 23 della ripresa lo svedese gonfia la rete. Sarà questo l'unico gol ufficiale dell'attaccante nella sua breve esperienza italiana. In campionato non gioca quasi mai - Capello gli preferisce un non meno legnoso Kluivert - ma in compenso è titolare in Coppa Italia. Al debutto contro la Reggiana (sedicesimi di finale) è il peggiore in campo, contro la Sampdoria (ottavi) gioca i primi 45 minuti, che si concludono con il risultato di 2-0 per i blucerchiati: poi Weah gli dà il cambio, e il Milan vince 3-2. Fa in tempo poi a partecipare, anche se non nel tabellino marcatori, allo storico 5-0 rifilato all'Inter ai quarti di finale. Per ritrovare un altro gol di Andersson dobbiamo insomma andare a ricercare nelle amichevoli: qualche tifoso rossonero lo ricorderà tra i marcatori nell'8-0 al Ginosa di Puglia, all'Arena di Milano, il 24 ottobre. In quella occasione Galliani afferma: "Per il Milan è il momento peggiore degli ultimi 10 anni". Con buona pace di Carolina Morace, all'epoca opinionista tv su TMC e grande sostenitrice del giocatore, la società a gennaio mette Andersson sul mercato, e subito si scatena una bagarre a suon di miliardi tra Arsenal e Chelsea. Alla fine però se lo accaparra il Newcastle per circa 9 miliardi di lire: una buona plusvalenza, non c'è che dire. Il Milan all'ultimo momento prende al suo posto Pippo Maniero - non proprio un fenomeno, ma ha sempre fatto il suo dovere - e Braida, a chi gli chiede il perché di una coppia d'attacco (Ganz-Maniero) non proprio da Champions League, risponde nervoso: "Solo chi non conosce il calcio può porre la questione in questi termini. La verità è che ad inizio stagione la coppia Kluivert-Weah era considerata, da tutti, come eccellente. Chi poteva prevedere che non avrebbero reso secondo le aspettative?". Già, chi poteva prevedere... Giunto al Newcastle in compagnia della fidanzata Lina Gustavsson, Andersson inizia a sparare a zero - com'è consuetudine - contro la sua ex squadra. Accusa Capello di essere una sorta di "generale di ferro", e di avere imposto allo spogliatoio una disciplina troppo rigida: inoltre gli rimprovera di non avergli mai concesso la possibilità di dimostrare davvero le sue capacità. Ma il passato è passato: il futuro al Newcastle invece sembra roseo, anche perché il feeling con mister Kenny Dalglish è subito molto buono. Il tecnico scozzese è convinto che lo svedese possa inserirsi con rapidità negli spazi creati dalla torre Shearer, osservato speciale dai difensori avversari. Il giocatore, da parte sua, spera di riuscire a riconquistarsi la convocazione in Nazionale: è infatti finito sul banco degli imputati dopo la mancata qualificazione a Francia '98, a scapito di Austria e Scozia. L'esordio in Premier League è datato 1 Febbraio 1998, 2-0 contro l'Aston Villa. Le grandi aspettative, tuttavia, vengono in parte tradite: Andersson in due anni segna solo 4 gol in 27 partite, e il Newcastle - dove milita pure Tomasson, ignaro di fare più o meno la stessa sorte del compagno d'attacco - arranca in classifica. Nella stagione 97/98 finisce tredicesimo, e stesso piazzamento anche l'anno successivo. Per Andersson si profila un ritorno a casa, precisamente all'AIK Stoccolma, club che nella stagione 1999/2000 milita anche in Champions League e viene inserito nello stesso girone della Fiorentina (gli svedesi arrivano ultimi con 1 solo punto all'attivo, conquistato proprio in casa contro i viola, e conquistano la palma di peggior squadra del torneo). Andersson, pagato 2 milioni di sterline, snobbato dalla propria Nazionale - tanto che salterà l'appuntamento con gli Europei del 2000 - a gennaio tenta anche la carta Benfica (una sola rete all'attivo fino a giugno), dopodichè si arrende e ritorna a Stoccolma dove rimane per 3 anni, insieme all'amico Teddy Lucic. Ma il pur blasonato club in quel periodo non si porta a casa neanche un misero trofeo. Nell'estate del 2002 finalmente arriva la grande occasione: coach Soderberg gli concede una chance per i Mondiali di Corea e Giappone, competizione guadagnata anche grazie ad un gol di Andersson, nel match decisivo contro la Turchia durante le qualificazioni. Ma la Svezia, pur passando la fase a gironi alle spalle dell'Inghilterra, viene subito eliminata agli ottavi dalla matricola Senegal: il nostro Andreas, ormai impiegato come ala piuttosto che come punta, viene utilizzato sempre come sostituto in corsa e appare piuttosto evanescente. Si interrompe qui il suo rapporto con la Nazionale: non viene convocato per gli Europei del 2004 a causa dei postumi di un infortunio ai legamenti del ginocchio. In tale occasione il fisioterapista della Nazionale svedese, Anders Vallentin, afferma preoccupato: "E' difficile dire quando rientrerà, perché il danno è grave e vari calciatori hanno dovuto smettere per una situazione del genere". Contrariamente alle previsioni, Andersson si rimette invece in pista, e nonostante l'esclusione dalla competizione europea in estate si reca ugualmente in Portogallo. A sorpresa, infatti, trova l'accordo con il Belenenses, squadra di Lisbona, ma anche qui il feeling con la piazza non è dei migliori. Nel giugno 2005 tenta l'avventura con il Malmöe, ma dura solo un mese: il 1 agosto comunica alla stampa la sua intenzione di lasciare il calcio giocato, a causa dei ripetuti problemi fisici. Entrerà a far parte, dice, dello staff tecnico dell'AIK Stoccolma. Finirà nel dimenticatoio anche in patria, come vi è finito in Italia? Forse, ma gli appassionati di calcio svedese ricorderanno a vita la sua espressione sbigottita nel vedere un bagno chimico cadere su un'auto in cui credeva ci fosse qualcuno. Questo lo scherzo a cui fu sottoposto dallo staff della trasmissione televisiva "Bllasningen" (il nostro "Scherzi a parte"). Roba da morire dal ridere.
venerdì 5 aprile 2013
Dragan Stojković:Non riusciì ad essere Romeo
Dragan Stojković:Non riusciì ad essere Romeo
Dragan Stojković ( 3 marzo 1965) Serbia
Ora parliamo di un giocatore arrivato nella città di Romeo e Giulietta agli inizi anni 90, un ragazzo che aveva impressionato nella sua nazionale, quando ancora si chiamava Jugoslavia, persino un certo Savicevic era al suo cospetto il secondo giocatore della nazione, un attacante rapido, dotato di una grande visione di gioco ma soprattutto un senso del gol come pochi,sicuramente era uno degli astri nascenti del calcio,purtroppo i continui infortuni ne hanno pesantemente condizionato la carriera,soprattutto nel nostro campionato arrivato dopo un grave infortunio.
Ma conosciamolo meglio l'ex promessa della Stella Rossa,Dragan, per gli amici Pixie, come il topolino del celebre cartone animato, come molti slavi ha grande estro. Il suo però è di parecchio superiore alla media, esordisce nemmeno maggiorenne nel Radnički e poi a 21 anni passa allo Stella Rossa, principale squadra del paese. Sin dalla prima stagione si dimostra un crack: 17 reti il primo anno, poi 15, 12 e 10. Fa incetta di titoli, vince per due volte il premio come miglior jugoslavo dell'anno, trascina i suoi al titolo. Siamo nell'autunno 1988 e in Coppa dei Campioni lo Stella Rossa viene sorteggiato per il secondo turno col Milan. All'andata a San Siro segna la rete dell'illusorio 1-0, prima che Virdis pareggi immediatamente. Il ritorno al Marakana di Belgrado passerà alla storia per la nebbia provvidenziale che salverà il Milan da una certa eliminazione. Si rigioca il giorno dopo, il Milan va avanti con van Basten e ancora lui, Dragan Stojkovic colpisce: è 1-1 e partita che verrà decisa ai rigori e vinta dalla squadra di Sacchi.
Nell'estate del 1990 gli italiani possono ammirare ancora il numero 10, che ai mondiali trascina la Jugoslavia ai quarti di finale: memorabile la doppietta con la quale spazza via la favorita Spagna. La rassegna iridata lo porta ad essere ingaggiato a suon di franchi dal Marsiglia di Bernard Tapie. Ed ecco che la tappa francese sarà decisiva, in modo negativo, anche per quello che succederà in Italia: Stojkovic si infortuna gravemente al ginocchio, viene operato, salta gran parte del torneo, collezionando appena 11 presenze. A fine stagione il Marsiglia, che intanto può sfoggiare grandi campioni, decide di poter fare a meno del serbo, fiutando probabilmente come l'infortunio subito ne abbia definitivamente condizionato il rendimento. Il Verona nell'estate del 1991 ritorna in Serie A dopo un anno di purgatorio: il giovane presidente Stefano Mazzi decide di fare un regalo ai tifosi scaligeri sganciando ben 10 miliardi di lire e portando in Veneto il grande fantasista. Con lui dietro la promessa Florin Raducioiu e la rivelazione dell'anno prima Claudio Lunini i tifosi sognano. Invece va a finire come i dirigenti marsigliesi avevano immaginato: il giocatore è costante vittima di infortuni, sta a lungo fermo ai box. Cade, si rialza e ricade. Quando gioca non incanta, ha l'occasione di sbloccarsi sotto rete calciando i rigori ma riesce a sbagliarne due su due. Alla fine segna un gol, a stagione praticamente compromessa, contro l'Ascoli. Come se non bastasse oltre a Stojkovic sono ben altri a fallire, come lo stesso Raducioiu, capocannoniere della serie "Questo lo segnavo anch'io" riservato ai giocatori capaci di mangiarsi il maggior numero di facili occasioni da gol. Il Verona torna mestamente in Serie B e oltre il danno esce fuori la beffa. Sì, perché gli scaligeri prima di prendere Stojkovic avevano in mano un giovane argentino che sarebbe costato in tutto tre miliardi. Affare che non si fece più perché all'epoca si potevano tesserare solo tre stranieri e con lo svedese Prytz già in rosa e il rumeno Raducioiu già preso per il terzo posto si scelse il campione affermato Dragan Stojkovic al posto della scommessa argentina. Il presidente Mazzi dichiarò ai giornali dell'epoca: "Avevamo in mano il contratto, mancava solo la firma. Ma non era ancora quello che poi ha fatto meraviglie alla Coppa America". Il giocatore in questione si chiamava Gabriel Omar Batistuta, che da lì a poco sarebbe diventato proprio il capocannoniere della manifestazione sudamericana, facendo innamorare i Cecchi Gori che lo portarono a Firenze.
Dopo quella disgraziata stagione per il Verona di Fascetti, chiusa con una brutta retrocessione anche ilo serbo venne rispedito al mittente torno in quel Marsiglia che riuscii nell'impresa di battere il Milan nella finale di coppa campionie l'anno dopo esattamente nella primavera del 1994 si trasferiì in Giappone,firmò per il Nagoya Grampus Eight, squadra militante nella J-League, allenato da Arsène Wenger assistito da Gary Lineker. Rimase per sette stagioni con la formazione giapponese per poi ritirarsi dal calcio giocato nel 2001. Con il Grampus Eight Stojković mise a segno 57 gol in 183 partite. Fu nominato MVP della J-League nel 1995.
Stojković totalizzò 84 presenze e 16 gol con le maglie della Jugoslavia e della Serbia-Montenegro. Con la prima giocò ad Euro 84 e alla Coppa del Mondo 1990, con l'ultima giocò alla Coppa del Mondo 1998 e ad Euro 2000. Appena ritiratosi divenne presidente della Federazione calcistica della Serbia e successivamente della Stella Rossa Belgrado.
Dragan Stojković ( 3 marzo 1965) Serbia
Ora parliamo di un giocatore arrivato nella città di Romeo e Giulietta agli inizi anni 90, un ragazzo che aveva impressionato nella sua nazionale, quando ancora si chiamava Jugoslavia, persino un certo Savicevic era al suo cospetto il secondo giocatore della nazione, un attacante rapido, dotato di una grande visione di gioco ma soprattutto un senso del gol come pochi,sicuramente era uno degli astri nascenti del calcio,purtroppo i continui infortuni ne hanno pesantemente condizionato la carriera,soprattutto nel nostro campionato arrivato dopo un grave infortunio.
Ma conosciamolo meglio l'ex promessa della Stella Rossa,Dragan, per gli amici Pixie, come il topolino del celebre cartone animato, come molti slavi ha grande estro. Il suo però è di parecchio superiore alla media, esordisce nemmeno maggiorenne nel Radnički e poi a 21 anni passa allo Stella Rossa, principale squadra del paese. Sin dalla prima stagione si dimostra un crack: 17 reti il primo anno, poi 15, 12 e 10. Fa incetta di titoli, vince per due volte il premio come miglior jugoslavo dell'anno, trascina i suoi al titolo. Siamo nell'autunno 1988 e in Coppa dei Campioni lo Stella Rossa viene sorteggiato per il secondo turno col Milan. All'andata a San Siro segna la rete dell'illusorio 1-0, prima che Virdis pareggi immediatamente. Il ritorno al Marakana di Belgrado passerà alla storia per la nebbia provvidenziale che salverà il Milan da una certa eliminazione. Si rigioca il giorno dopo, il Milan va avanti con van Basten e ancora lui, Dragan Stojkovic colpisce: è 1-1 e partita che verrà decisa ai rigori e vinta dalla squadra di Sacchi.
Nell'estate del 1990 gli italiani possono ammirare ancora il numero 10, che ai mondiali trascina la Jugoslavia ai quarti di finale: memorabile la doppietta con la quale spazza via la favorita Spagna. La rassegna iridata lo porta ad essere ingaggiato a suon di franchi dal Marsiglia di Bernard Tapie. Ed ecco che la tappa francese sarà decisiva, in modo negativo, anche per quello che succederà in Italia: Stojkovic si infortuna gravemente al ginocchio, viene operato, salta gran parte del torneo, collezionando appena 11 presenze. A fine stagione il Marsiglia, che intanto può sfoggiare grandi campioni, decide di poter fare a meno del serbo, fiutando probabilmente come l'infortunio subito ne abbia definitivamente condizionato il rendimento. Il Verona nell'estate del 1991 ritorna in Serie A dopo un anno di purgatorio: il giovane presidente Stefano Mazzi decide di fare un regalo ai tifosi scaligeri sganciando ben 10 miliardi di lire e portando in Veneto il grande fantasista. Con lui dietro la promessa Florin Raducioiu e la rivelazione dell'anno prima Claudio Lunini i tifosi sognano. Invece va a finire come i dirigenti marsigliesi avevano immaginato: il giocatore è costante vittima di infortuni, sta a lungo fermo ai box. Cade, si rialza e ricade. Quando gioca non incanta, ha l'occasione di sbloccarsi sotto rete calciando i rigori ma riesce a sbagliarne due su due. Alla fine segna un gol, a stagione praticamente compromessa, contro l'Ascoli. Come se non bastasse oltre a Stojkovic sono ben altri a fallire, come lo stesso Raducioiu, capocannoniere della serie "Questo lo segnavo anch'io" riservato ai giocatori capaci di mangiarsi il maggior numero di facili occasioni da gol. Il Verona torna mestamente in Serie B e oltre il danno esce fuori la beffa. Sì, perché gli scaligeri prima di prendere Stojkovic avevano in mano un giovane argentino che sarebbe costato in tutto tre miliardi. Affare che non si fece più perché all'epoca si potevano tesserare solo tre stranieri e con lo svedese Prytz già in rosa e il rumeno Raducioiu già preso per il terzo posto si scelse il campione affermato Dragan Stojkovic al posto della scommessa argentina. Il presidente Mazzi dichiarò ai giornali dell'epoca: "Avevamo in mano il contratto, mancava solo la firma. Ma non era ancora quello che poi ha fatto meraviglie alla Coppa America". Il giocatore in questione si chiamava Gabriel Omar Batistuta, che da lì a poco sarebbe diventato proprio il capocannoniere della manifestazione sudamericana, facendo innamorare i Cecchi Gori che lo portarono a Firenze.
Dopo quella disgraziata stagione per il Verona di Fascetti, chiusa con una brutta retrocessione anche ilo serbo venne rispedito al mittente torno in quel Marsiglia che riuscii nell'impresa di battere il Milan nella finale di coppa campionie l'anno dopo esattamente nella primavera del 1994 si trasferiì in Giappone,firmò per il Nagoya Grampus Eight, squadra militante nella J-League, allenato da Arsène Wenger assistito da Gary Lineker. Rimase per sette stagioni con la formazione giapponese per poi ritirarsi dal calcio giocato nel 2001. Con il Grampus Eight Stojković mise a segno 57 gol in 183 partite. Fu nominato MVP della J-League nel 1995.
Stojković totalizzò 84 presenze e 16 gol con le maglie della Jugoslavia e della Serbia-Montenegro. Con la prima giocò ad Euro 84 e alla Coppa del Mondo 1990, con l'ultima giocò alla Coppa del Mondo 1998 e ad Euro 2000. Appena ritiratosi divenne presidente della Federazione calcistica della Serbia e successivamente della Stella Rossa Belgrado.
mercoledì 3 aprile 2013
Dertycia:El tiburon diventò Mastro Lindo
Dertycia:El tiburon diventò Mastro Lindo
Oscar Alberto Dertycia Álvarez (Córdoba, 3 marzo 1965)
Fino ad oggi abbiamo parlato dei tanti stranieri che sono arrivati in Italia dalla legge Bosman,ovviamente e molto più facile avere delle patacche al giorno d'oggi coi i tanti ragazzi stranieri sottratti al loro paese,alcuni troppo acerbi per far vedere le loro reali caratteristiche,giustamente il calcio è diventato business e non si aspetta abbastanza un giovane per poterlo farlo compiere il salto di qualità, non esistono neppure quelle isole felici di una volta dove la prima cosa erano in primo piano gli uomini prima ancora dei calciatori di calcio.
Parleremo di un altro giocatore arrivato alla fine degli anni ottanta,dopo avervi parlato di Portaluppi, oggi parleremo di un giocatore della squadra gigliata,Dertycia, lui però a differenza del buon Renato non venne aspettato dopo un terribile infortunio,il ragazzo aveva tutte le qualità per poter sfondare nel nostro campionato ma conosciamolo meglio.
Per gli amanti dei soprannomi, si sappia che quello di Oscar Dertycia era ufficialmente "El Tiburon". Ma, guardando la sua fotografia, quello di "Mastro Lindo" (proposto dai tifosi del Cadice) ci sembra probabilmente il nickname più azzeccato, o quantomeno il più divertente. Dertycia e i suoi tifosi: un rapporto sempre molto stretto, dovunque e comunque. Tanto che anche a Firenze, dove il flop fu davvero clamoroso, quasi tutto lo ricordano più con sarcasmo che con rabbia. Oscar Alberto Dertycia nasce a Cordoba il 3 Marzo 1965, e si avvicina al calcio giocando nelle giovanili dell'Instituto, una delle squadre della sua città. L'esordio in prima squadra avviene nella stagione 1982/83: il diciassettenne Dertycia, lanciato coraggiosamente nel massimo campionato, realizza 7 gol in 18 partite. Nel 1985, dopo altre due stagioni ricche di reti e di ottime prestazioni, viene acquistato dall'Argentinos Juniors, squadra nella quale inizialmente non riesce a trovare moltissimo spazio. Dertycia, tuttavia, fa appena in tempo ad entrare nella storia del club, che proprio nell'85 si aggiudica per la prima e unica volta la Copa Libertadores, battendo l'America Cali nello spareggio disputato ad Asuncion, in Paraguay. L'attaccante, l'8 Dicembre dello stesso anno, partecipa anche alla trasferta di Tokyo in vista del match di Coppa Intercontinentale contro la Juventus, ma senza scendere in campo. La partita, com'è noto, termina con la vittoria dei bianconeri ai rigori. Nel corso della stagione successiva Dertycia riesce a imporsi molto più spesso come titolare, e nel 1987 arriva anche la prima convocazione in Nazionale da parte di mister Bilardo: in squadra con lui Pasculli, Caniggia e Maradona. Il 1988 è l'anno della definitiva esplosione: Dertycia, sempre con la maglia dell'Argentinos Juniors, vince il titolo di capocannoniere del campionato argentino, realizzando ben 20 gol (primato in comproprietà con Nestor Gorosito, del San Lorenzo). Sancisce anche un record: mette a segno 9 gol nelle prime tre giornate di campionato (quaterna al Rosario Central, quaterna all'Estudiantes e una rete all'Independiente). La sua fama comincia ormai a diffondersi anche fuori dal continente, e nell'estate del 1989 il suo talento viene notato da alcuni osservatori del Genoa e della Fiorentina. "In campo è una belva. Ha il naso da pugile, le guance scavate, i riccioli tempestosi. Le sue baruffe fanno cronaca, se non proprio testo" scrive la Gazzetta dello Sport. "Alto 1.83 per 84 chili, è un goleador brutale, quasi selvaggio..." sottolinea "El Grafico", prestigioso rotocalco sportivo argentino. Gol facile, fisico possente, tempra tutta sudamericana e una fluente chioma bionda: è Dertyicia, ma sembra la descrizione di Gabriel Omar Batistuta, il quale però sta ancora facendosi le ossa nel River Plate e a Firenze arriverà solo nel 1991. Nel frattempo, il Conte Pontello decide di regalare alla Fiorentina quello che tutti individuano come uno dei migliori bomber argentini sul mercato, rinunciando anche all'interista Ramon Diaz, particolarmente gradito al tecnico Giorgi. L'investimento costa 2 miliardi e 200 milioni di lire: il giocatore firma un contratto triennale da 300 milioni l'anno. In maglia viola, la "spalla" di Dertycia è un certo signor Roberto Baggio, ancora molto giovane ma già leader dei suoi. L'inadeguatezza dell'argentino si rende subito palese agli occhi dei tifosi. La Fiorentina riesce ad arrivare in finale di Coppa Uefa, ma come cinque anni prima a Tokyio è ancora una volta la Juventus a frapporsi tra Dertycia e la vittoria finale. Anche qui, l'argentino non viene utilizzato (causa infortunio, di cui parleremo in seguito) e i bianconeri si portano a casa il trofeo. In campionato la situazione è decisamente peggiore: Dertycia parte benino e il 19 Novembre, alla dodicesima giornata, sembra proprio che sia "nata una stella". Si gioca al Franchi contro l'Ascoli, e l'argentino riesce finalmente a mettere a segno una bella doppietta, ponendo la sua firma sul 5-1 finale. Ma circa due mesi dopo il destino si accanisce contro di lui: è il 24 Gennaio e i viola affrontano in Napoli in Coppa Italia, sul neutro di Perugia. Dopo nove minuti, Dertycia si scontra con Maradona, prende una botta al ginocchio e viene sostituito. Soltanto nell'allenamento del mattino dopo, il giocatore e lo staff medico si rendono conto che si tratta di una distorsione al ginocchio destro con lesione del legamento crociato anteriore. In poche parole: stagione finita. Per lui si parla addirittura di un possibile addio al calcio giocato: intanto viene colpito da una grave forma di alopecia nervosa, e nel giro di qualche mese della sua folta capigliatura non rimane più nulla. Depresso e pelato, Dertycia rescinde il contratto con la Fiorentina per permettere alla società di ingaggiare l'altra meteora Lacatus. "Ho accettato questa soluzione senza pensarci un attimo" ricorderà in seguito Dertycia, "non potevo lasciare nei guai la società che mi aveva acquistato: volevano Lacatus e io ero di troppo". In attesa di trovare una sistemazione, l'argentino si opera e torna in campo con la maglia viola, anche se solo per un'amichevole, il 1 Novembre 1990 contro la Sestese, accolto dagli applausi incoraggianti dei supporters toscani. Dertycia si allena, è pronto a ricominciare, anche se altrove: per gli ultrà del club gigliato più che un peso è ormai una mascotte. "Mi sono stati vicino - ricorda 'Oscarone' - e ancora oggi mi invitano alle feste, quando avevo il ginocchio bloccato erano sempre a casa mia. Per la partita con il Parma mi avevano chiesto di andare in curva, insieme a loro, a tifare viola. Ho risposto di no perché, se la partita si fosse messa male, come poi è successo, qualcuno avrebbe cominciato a intonare il coro per me, 'Dertycia, Dertycia' e i miei compagni, in campo, ne avrebbero sofferto. D'altronde è anche colpa mia. Dovevo segnare qualche rete in più. Per questo vorrei restare in Italia, per dimostrare il mio vero valore". Le ultime parole famose: passano due settimane e Dertycia lascia definitivamente il calcio italiano, con un bottino veramente magro, ovvero 19 partite giocate (6 in Uefa, 3 in Coppa Italia e 10 in campionato) e soltanto 5 reti segnate. Anche in maglia viola, però, Dertycia si rende protagonista di un momento storico per il proprio club: dai suoi piedi, infatti, nasce la prima vittoria della Fiorentina ai calci di rigore nella storia della società gigliata. Accade il 30 Agosto 1989 nel secondo turno di Coppa Italia, e precisamente nella partita contro il Como, neo-retrocesso in C1. Al 90' il risultato e di 1-1 e, dopo i supplementari, si va ai tiri dal dischetto: dopo cinque rigori tirati e altrettante cinque reti, il comasco Annoni sbaglia mentre Dertycia realizza, consentendo ai suoi di passare il turno. Magra soddisfazione, direte voi. Sì, ma pur sempre una delle poche. La stagione 1990/91 è quella del riscatto per Oscar Dertycia, che inizia la sua avventura nel calcio spagnolo con la maglia del Cadice. Pur non godendo della piena fiducia del suo allenatore, l'argentino si guadagna 21 partite da titolare e segna 6 gol: intanto diventa l'idolo dei tifosi, i quali prontamente lo ribattezzano "Mister Proper" (sarebbe il nostro "Mastro Lindo"... un po' cinico, non trovate?). L'anno dopo Dertycia è a Tenerife, dove resta fino al 1994: qui trova il connazionale Diego Latorre, attaccante anche lui, che aveva appena lasciato la Fiorentina tra i fischi dei tifosi viola. Il primo anno, agli ordini di mister Jorge Solari (lo zio del neo-acquisto dell'Inter) segna 7 reti in 31 partite; successivamente, con l'avvento in panchina di Jorge Valdano, trova inizialmente meno spazio, ma poi sospinto dall'entusiasmo dei tifosi (sempre al suo fianco) riesce a collezionare 31 presenze e 11 gol. Bella, e soprattutto importantissima, l'ultima rete: il (modesto) Tenerife affronta in casa in Real Madrid, al quale basta un pareggio per vincere il campionato. Ma grazie ad un gol di Dertycia gli isolani riesco clamorosamente a battere le "merengues", regalando inaspettatamente lo scudetto al Barcellona. Un'impresa che frutta a Valdano l'ottenimento della panchina del Real Madrid, un mese e mezzo dopo. Per Dertycia invece nessuna chiamata "dall'alto", ma solo l'incommensurabile affetto dei propri tifosi, che gli intitolano addirittura un gruppo ultrà, il quale tuttora reca il nome "Peña Oscar Dertycia". Nella stagione 1994/95 il giocatore milita nell'Albacete (22 presenze e 6 gol), dopodichè decide di tornare in patria, accasandosi prima al Belgrano di Cordoba e poi presso i concittadini del Talleres, nella Serie B argentina. Qui Dertycia vince il titolo di capocannoniere del torneo anche se manca di pochissimo, insieme ai suoi compagni, la promozione nella massima serie (la finale viene persa ai rigori). Ormai sul viale del tramonto, Dertycia decide di chiudere la sua carriera all'Instituto di Cordoba, la squadra che lo ha lanciato, con la quale trova un accordo economico irrisorio (il club milita in Serie B ed è in condizioni finanziare disastrose). Ma a sorpresa, quando ormai tutti pensano ad un suo definitivo addio al calcio, nel 2000 viene chiamato dai cileni del Temuco, e l'anno successivo a 37 anni suonati diventa capitano del Coopsol di Trujillo, piccola squadra peruviana. Nel 2003 torna a Cordoba per giocare gli ultimi spiccioli di carriera nel General Paz Juniors, la quinta squadra della città, militante nel campionato di Serie C1. Dopo qualche mese viene esonerato l'allenatore Victor Ramos, e il presidente del club gli propone di fare da player-manager. Al termine della stagione, Dertycia appende una volta per tutte le scarpette al chiodo e si dedica soltanto al ruolo di tecnico. Ruolo che tuttora ricopre, sempre al General Paz Juniors. Pelato ma contento
fonte:tuttomercatoweb
Oscar Alberto Dertycia Álvarez (Córdoba, 3 marzo 1965)
Fino ad oggi abbiamo parlato dei tanti stranieri che sono arrivati in Italia dalla legge Bosman,ovviamente e molto più facile avere delle patacche al giorno d'oggi coi i tanti ragazzi stranieri sottratti al loro paese,alcuni troppo acerbi per far vedere le loro reali caratteristiche,giustamente il calcio è diventato business e non si aspetta abbastanza un giovane per poterlo farlo compiere il salto di qualità, non esistono neppure quelle isole felici di una volta dove la prima cosa erano in primo piano gli uomini prima ancora dei calciatori di calcio.
Parleremo di un altro giocatore arrivato alla fine degli anni ottanta,dopo avervi parlato di Portaluppi, oggi parleremo di un giocatore della squadra gigliata,Dertycia, lui però a differenza del buon Renato non venne aspettato dopo un terribile infortunio,il ragazzo aveva tutte le qualità per poter sfondare nel nostro campionato ma conosciamolo meglio.
Per gli amanti dei soprannomi, si sappia che quello di Oscar Dertycia era ufficialmente "El Tiburon". Ma, guardando la sua fotografia, quello di "Mastro Lindo" (proposto dai tifosi del Cadice) ci sembra probabilmente il nickname più azzeccato, o quantomeno il più divertente. Dertycia e i suoi tifosi: un rapporto sempre molto stretto, dovunque e comunque. Tanto che anche a Firenze, dove il flop fu davvero clamoroso, quasi tutto lo ricordano più con sarcasmo che con rabbia. Oscar Alberto Dertycia nasce a Cordoba il 3 Marzo 1965, e si avvicina al calcio giocando nelle giovanili dell'Instituto, una delle squadre della sua città. L'esordio in prima squadra avviene nella stagione 1982/83: il diciassettenne Dertycia, lanciato coraggiosamente nel massimo campionato, realizza 7 gol in 18 partite. Nel 1985, dopo altre due stagioni ricche di reti e di ottime prestazioni, viene acquistato dall'Argentinos Juniors, squadra nella quale inizialmente non riesce a trovare moltissimo spazio. Dertycia, tuttavia, fa appena in tempo ad entrare nella storia del club, che proprio nell'85 si aggiudica per la prima e unica volta la Copa Libertadores, battendo l'America Cali nello spareggio disputato ad Asuncion, in Paraguay. L'attaccante, l'8 Dicembre dello stesso anno, partecipa anche alla trasferta di Tokyo in vista del match di Coppa Intercontinentale contro la Juventus, ma senza scendere in campo. La partita, com'è noto, termina con la vittoria dei bianconeri ai rigori. Nel corso della stagione successiva Dertycia riesce a imporsi molto più spesso come titolare, e nel 1987 arriva anche la prima convocazione in Nazionale da parte di mister Bilardo: in squadra con lui Pasculli, Caniggia e Maradona. Il 1988 è l'anno della definitiva esplosione: Dertycia, sempre con la maglia dell'Argentinos Juniors, vince il titolo di capocannoniere del campionato argentino, realizzando ben 20 gol (primato in comproprietà con Nestor Gorosito, del San Lorenzo). Sancisce anche un record: mette a segno 9 gol nelle prime tre giornate di campionato (quaterna al Rosario Central, quaterna all'Estudiantes e una rete all'Independiente). La sua fama comincia ormai a diffondersi anche fuori dal continente, e nell'estate del 1989 il suo talento viene notato da alcuni osservatori del Genoa e della Fiorentina. "In campo è una belva. Ha il naso da pugile, le guance scavate, i riccioli tempestosi. Le sue baruffe fanno cronaca, se non proprio testo" scrive la Gazzetta dello Sport. "Alto 1.83 per 84 chili, è un goleador brutale, quasi selvaggio..." sottolinea "El Grafico", prestigioso rotocalco sportivo argentino. Gol facile, fisico possente, tempra tutta sudamericana e una fluente chioma bionda: è Dertyicia, ma sembra la descrizione di Gabriel Omar Batistuta, il quale però sta ancora facendosi le ossa nel River Plate e a Firenze arriverà solo nel 1991. Nel frattempo, il Conte Pontello decide di regalare alla Fiorentina quello che tutti individuano come uno dei migliori bomber argentini sul mercato, rinunciando anche all'interista Ramon Diaz, particolarmente gradito al tecnico Giorgi. L'investimento costa 2 miliardi e 200 milioni di lire: il giocatore firma un contratto triennale da 300 milioni l'anno. In maglia viola, la "spalla" di Dertycia è un certo signor Roberto Baggio, ancora molto giovane ma già leader dei suoi. L'inadeguatezza dell'argentino si rende subito palese agli occhi dei tifosi. La Fiorentina riesce ad arrivare in finale di Coppa Uefa, ma come cinque anni prima a Tokyio è ancora una volta la Juventus a frapporsi tra Dertycia e la vittoria finale. Anche qui, l'argentino non viene utilizzato (causa infortunio, di cui parleremo in seguito) e i bianconeri si portano a casa il trofeo. In campionato la situazione è decisamente peggiore: Dertycia parte benino e il 19 Novembre, alla dodicesima giornata, sembra proprio che sia "nata una stella". Si gioca al Franchi contro l'Ascoli, e l'argentino riesce finalmente a mettere a segno una bella doppietta, ponendo la sua firma sul 5-1 finale. Ma circa due mesi dopo il destino si accanisce contro di lui: è il 24 Gennaio e i viola affrontano in Napoli in Coppa Italia, sul neutro di Perugia. Dopo nove minuti, Dertycia si scontra con Maradona, prende una botta al ginocchio e viene sostituito. Soltanto nell'allenamento del mattino dopo, il giocatore e lo staff medico si rendono conto che si tratta di una distorsione al ginocchio destro con lesione del legamento crociato anteriore. In poche parole: stagione finita. Per lui si parla addirittura di un possibile addio al calcio giocato: intanto viene colpito da una grave forma di alopecia nervosa, e nel giro di qualche mese della sua folta capigliatura non rimane più nulla. Depresso e pelato, Dertycia rescinde il contratto con la Fiorentina per permettere alla società di ingaggiare l'altra meteora Lacatus. "Ho accettato questa soluzione senza pensarci un attimo" ricorderà in seguito Dertycia, "non potevo lasciare nei guai la società che mi aveva acquistato: volevano Lacatus e io ero di troppo". In attesa di trovare una sistemazione, l'argentino si opera e torna in campo con la maglia viola, anche se solo per un'amichevole, il 1 Novembre 1990 contro la Sestese, accolto dagli applausi incoraggianti dei supporters toscani. Dertycia si allena, è pronto a ricominciare, anche se altrove: per gli ultrà del club gigliato più che un peso è ormai una mascotte. "Mi sono stati vicino - ricorda 'Oscarone' - e ancora oggi mi invitano alle feste, quando avevo il ginocchio bloccato erano sempre a casa mia. Per la partita con il Parma mi avevano chiesto di andare in curva, insieme a loro, a tifare viola. Ho risposto di no perché, se la partita si fosse messa male, come poi è successo, qualcuno avrebbe cominciato a intonare il coro per me, 'Dertycia, Dertycia' e i miei compagni, in campo, ne avrebbero sofferto. D'altronde è anche colpa mia. Dovevo segnare qualche rete in più. Per questo vorrei restare in Italia, per dimostrare il mio vero valore". Le ultime parole famose: passano due settimane e Dertycia lascia definitivamente il calcio italiano, con un bottino veramente magro, ovvero 19 partite giocate (6 in Uefa, 3 in Coppa Italia e 10 in campionato) e soltanto 5 reti segnate. Anche in maglia viola, però, Dertycia si rende protagonista di un momento storico per il proprio club: dai suoi piedi, infatti, nasce la prima vittoria della Fiorentina ai calci di rigore nella storia della società gigliata. Accade il 30 Agosto 1989 nel secondo turno di Coppa Italia, e precisamente nella partita contro il Como, neo-retrocesso in C1. Al 90' il risultato e di 1-1 e, dopo i supplementari, si va ai tiri dal dischetto: dopo cinque rigori tirati e altrettante cinque reti, il comasco Annoni sbaglia mentre Dertycia realizza, consentendo ai suoi di passare il turno. Magra soddisfazione, direte voi. Sì, ma pur sempre una delle poche. La stagione 1990/91 è quella del riscatto per Oscar Dertycia, che inizia la sua avventura nel calcio spagnolo con la maglia del Cadice. Pur non godendo della piena fiducia del suo allenatore, l'argentino si guadagna 21 partite da titolare e segna 6 gol: intanto diventa l'idolo dei tifosi, i quali prontamente lo ribattezzano "Mister Proper" (sarebbe il nostro "Mastro Lindo"... un po' cinico, non trovate?). L'anno dopo Dertycia è a Tenerife, dove resta fino al 1994: qui trova il connazionale Diego Latorre, attaccante anche lui, che aveva appena lasciato la Fiorentina tra i fischi dei tifosi viola. Il primo anno, agli ordini di mister Jorge Solari (lo zio del neo-acquisto dell'Inter) segna 7 reti in 31 partite; successivamente, con l'avvento in panchina di Jorge Valdano, trova inizialmente meno spazio, ma poi sospinto dall'entusiasmo dei tifosi (sempre al suo fianco) riesce a collezionare 31 presenze e 11 gol. Bella, e soprattutto importantissima, l'ultima rete: il (modesto) Tenerife affronta in casa in Real Madrid, al quale basta un pareggio per vincere il campionato. Ma grazie ad un gol di Dertycia gli isolani riesco clamorosamente a battere le "merengues", regalando inaspettatamente lo scudetto al Barcellona. Un'impresa che frutta a Valdano l'ottenimento della panchina del Real Madrid, un mese e mezzo dopo. Per Dertycia invece nessuna chiamata "dall'alto", ma solo l'incommensurabile affetto dei propri tifosi, che gli intitolano addirittura un gruppo ultrà, il quale tuttora reca il nome "Peña Oscar Dertycia". Nella stagione 1994/95 il giocatore milita nell'Albacete (22 presenze e 6 gol), dopodichè decide di tornare in patria, accasandosi prima al Belgrano di Cordoba e poi presso i concittadini del Talleres, nella Serie B argentina. Qui Dertycia vince il titolo di capocannoniere del torneo anche se manca di pochissimo, insieme ai suoi compagni, la promozione nella massima serie (la finale viene persa ai rigori). Ormai sul viale del tramonto, Dertycia decide di chiudere la sua carriera all'Instituto di Cordoba, la squadra che lo ha lanciato, con la quale trova un accordo economico irrisorio (il club milita in Serie B ed è in condizioni finanziare disastrose). Ma a sorpresa, quando ormai tutti pensano ad un suo definitivo addio al calcio, nel 2000 viene chiamato dai cileni del Temuco, e l'anno successivo a 37 anni suonati diventa capitano del Coopsol di Trujillo, piccola squadra peruviana. Nel 2003 torna a Cordoba per giocare gli ultimi spiccioli di carriera nel General Paz Juniors, la quinta squadra della città, militante nel campionato di Serie C1. Dopo qualche mese viene esonerato l'allenatore Victor Ramos, e il presidente del club gli propone di fare da player-manager. Al termine della stagione, Dertycia appende una volta per tutte le scarpette al chiodo e si dedica soltanto al ruolo di tecnico. Ruolo che tuttora ricopre, sempre al General Paz Juniors. Pelato ma contento
fonte:tuttomercatoweb
lunedì 1 aprile 2013
Javi moreno:Il topo che perse la strada
Javi moreno:Il topo che perse la strada
Javi Moreno, all'anagrafe Javier Moreno Valera (Silla, 9 ottobre 1974)
Oggi parleremo uno dei pacchi più pesanti presi dal Milan dell'era Berlusconi, un ragazzo spagnolo che ancora oggi i tifosi rossoneri si chiedono chi lo abbia visionato, ma soprattutto chi lo abbia portato in quella maglia cosi gloriosa, che era del mitico Weah e di tanti altri che sono stati sotto la Madonnina e anche come abbiano fatto i dirigenti a pagarlo a peso d'oro un giocatore cosi,ma conosciamolo meglio.
<a href='http://www.fidelityhouse.eu/index.php?referral=3&code=hezuconabepu'>iscriviti a Fidelity House</a>
Questo fu il misterioso caso di Javi Moreno. Spagnolo di belle speranze, dal girovita piuttosto rotondetto, nacque calcisticamente nelle famosissime giovanili del Barcellona: famosissime ora, visto che a quei tempi non è che sfornassero dei fenomeni. Ed effettivamente Javi Moreno, o “El Raton”, come lo chiamavano i suoi tifosi per via della faccia da ratto delle fogne, non impressionò poi granché i dirigenti blaugrana, tanto da venire scaricato senza mai esordire nella squadra A, già nel lontano ‘96. Cordoba, Yeclano, Alaves (ma solo di passaggio) e Numancia furono le squadre che questo attaccante brutto e panciuto frequentò prima di tornare, stavolta in pianta stabile, all’Alaves. Attaccante, ma solo sulla carta, il “Rattone” era un losco individuo dalle dubbie abitudini alimentari: non esattamente un bomber (qualcosa come 12 gol in 4 anni), già a 17 anni poteva esibire una panza che successivamente Ronaldo gli avrebbe copiato spudoratamente, senza nemmeno un grazie. Brutto come la fame (sensazione che evidentemente il Rattone non aveva mai provato) Javi Moreno era tozzo, tarchiato, lento, stempiato, dotato di occhi vitrei da sorcio, di un naso da strega e di un sorriso così sbilenco e forzato che avrebbe fatto scappare a gambe levate qualsiasi essere dotato di senno. Assolutamente indegno di calcare non solo i verdi prati dei campi di calcio, ma persino quelli del parco dietro casa sua, nel 98, in seguito ad un viaggio a Lourdes, venne inspiegabilmente miracolato: quell’anno, a Numancia, riuscì nell’impresa di segnare ben 18 gol in 39 gare ufficiali. Per non parlare dell’anno successivo, il 2001, quando con l’Alaves (squadra passata all’epoca col soprannome di “Corte dei Miracoli”) rischiò addirittura di vincere la Coppa UEFA in finale col Liverpool. Ma siccome al dio del calcio piace scherzare, ma solo fino ad un certo punto, non bastarono le 6 reti nelle 8 partite europee (di cui ben due in finale, nel giro di 3 minuti) per assicurare a questo sgorbio il suo primo trofeo.
Bastarono però, insieme al titolo di capocannoniere della Liga, per convincere Galliani che il Rattone potesse essere l’acquisto giusto per fare da vice al nuovo arrivato Inzaghi, cosa che oggi potrebbe suonare come una clamorosa bestemmia, ma che all’epoca fu presa seriamente in considerazione. Strappato all’Alaves per la mostruosa cifra di 32 miliardi, con un biennale netto da 5 miliardi a stagione per 3 anni, El Raton divenne rossonero. Persino il Barcellona, interessato a riportare lo sgorbietto a casa (ogni scarrafò è bello a mamma sò), di fronte a tali cifre preferì rispondere con una sonora pernacchia, e fece bene.
“Sono molto felice di trovarmi a Milano e di poter giocare nel Milan. Ho scelto questi colori perchè questo è un grande club con grandi ambizioni. Ho preferito l'Italia ad altre soluzioni che mi avrebbero portato ad altri grandi club spagnoli: non ho resistito al fascino del vostro campionato”. Quando Moreno parlava di colori, si riferiva a quello delle lire italiane: Diciamo, infatti, che lo stipendio che gli garantiva il Milan era quasi il doppio di quello che erano disposti a sborsare i catalani, alla faccia del fascino del nostro campionato. L’ultima sua dichiarazione, come di consueto, finirà per rivelarsi un porta sfiga di caratura infernale: “Spero di poter giocare a fianco di Shevchenko e fare molti gol”. Nemmeno il tempo di dirlo, che il povero Pippo finirà in infermeria per tutta la stagione, sostituito da chi? Dal topastro di fogna ovviamente. Pellegatti non oserà mai chiamarlo così, preferendo il soprannome “Topo Gigio”, più sobrio ed elegante, ma questo non cambierà la sostanza: per i tifosi fu letteralmente un dramma vederlo arrancare sinuoso per il campo, col suo pelo nero e ispido, con i dentini di fuori, alla ricerca di un tozzo di formaggio da addentare. Terim, che strano a dirsi lo adorava, non a caso venne rispedito in Turchia a calci in culo, sostituito da Ancelotti, che fu costretto ad utilizzarlo a sprazzi a causa della morìa degli attaccanti rossoneri.
Alla fine furono 9 i gol segnati dal topastro in 27 partite ufficiali: 2 in campionato, 4 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA. Numeri che potrebbero sembrare non troppo negativi per uno che veniva bollato come portatore sano della peste bubbonica, ma che per questo potrebbero ingannare. I 2 in campionato furono infatti segnati entrambi contro un Venezia totalmente allo sbando, che nonostante tutto era persino riuscito a giocare alla pari coi rossoneri, non meritando il 4-1 finale: in quella partita Javito, dopo la prima marcatura, litigò furiosamente con la curva rossonera, rea di non adorarlo al pari di Van Basten. Sembra ancora di vederlo lì, sul prato, mentre corre e sputacchia parolacce in spagnolo verso i suoi sostenitori, portandosi le mani dietro quelle orecchie enormi e pelose, mostrandole polemico verso un pubblico già abbastanza inorridito. Per poi scusarsi miseramente dopo aver segnato il 2 gol. Ma il pubblico di fede rossonera non era l’unico ad odiarlo: lo spogliatoio l’aveva escluso per via della sua imponderabile scarsezza, del suo ostinarsi a non voler imparare l’italiano e della sua ferrea convinzione di essere un fenomeno. Durante gli allenamento a Milanello, i compagni facevano a gara per azzopparlo, mentre il Topo corricchiava svogliato per i campetti con quella sua pancia ballonzolante ed irritante: ci andò vicino soprattutto Martin Laursen, che passò alla storia per una serie di interventi omicidi con cui bersagliò il poveraccio per un’intera settimana, nel tentativo di fargli saltare il derby della Madonnina. Le altre reti, soprattutto quelle europee, furono inutili ai fini del conseguimento del risultato. L’unica, degna di tale nome, fu la punizione che permise al Milan di sconfiggere per 2-1 la Lazio in Coppa Italia. Proprio in quel periodo Javito venne addirittura convocato dalla nazionale spagnola, con cui arriverà ad esordire pochi giorni dopo. Nonostante questa improvvisa grazia, la dirigenza milanista non ci pensò due volte, ed in estate lo rispedì a calcioni in Spagna.
La destinazione del topastro fu l’Atletico Madrid dell’allora presidente Jesus Gil, ex-politico nonché ex-carcerato di grande fama: in Spagna, i migliori complimenti che venivano spesi per questo grande uomo erano “razzista”, “corrotto”, “sessista”, “omofobo”, “assassino” e “nazista”. Non si sa quali affari legassero il Milan all’Atletico Madrid, ma sta di fatto che la squadra spagnola diventò una colonia di ex-rossoneri a tutti gli effetti: oltre a Moreno, gli spagnoli acquisteranno dal Milan anche Albertini, José Mari, Coloccini e Contra. In particolare, suscitò grande curiosità nel mondo del calcio il prezzo che il Milan riuscì a scucire all’Atletico: ben 25 miliardi per un giocatore ampiamente bollito alla tenera età di 27 anni. Una cifra che riuscì bene o male ad indorare quel suppostone grigio-topo costato 32 miliardi solo 12 mesi prima. Inutile sottolineare che Javito non lasciò il segno nemmeno all’Atletico (29 gare in due anni, 5 gol), il quale ci mise poco a sbolognarlo in prestito al Bolton che, per la cronaca, non lo riscatterà nemmeno. L’ultimo club pseudo-prestigioso che provò a puntare su questo topo oramai attempato fu il Saragozza: fu in quell’anno che, durante un’intervista al quotidiano spagnolo AS, Moreno decise di spalare pupù a profusione sul Milan, accusandolo di essere una squadra di dopati. “La Serie A non è pulita come si pensa. Quando ero al Milan giravano strane pillole, ed ho visto con questi occhi più di un giocatore sottoposto a strane flebo negli spogliatoi durante l’intervallo”. Il topastro continuava così: “A Gennaio, contro l’Udinese, doveva giocare Roque Junior, che però si rifiutò di fare una flebo e venne mandato in tribuna, con la minaccia di essere ceduto ad un club minore”. Inutile dire che nessuno lo prese sul serio, anche se queste parole lo fecero diventare un’icona negli ambienti anti-milanisti per eccellenza: il sorcio divenne il paladino degli onesti, taciuto perché portatore di scomode verità, almeno stando a sentire gli interisti, o gli juventini, alle prese con lo scottante caso Davids.
Dopo il Saragozza fu un continuo peregrinare in formazioni semi-professionistiche: Cordoba, Ibiza, Lucena, ed infine il sacrosanto ritiro dal mondo del calcio. Mondo in cui speriamo non metterà più piede, con le sue zampine pelose e malauguranti.
Javi Moreno, all'anagrafe Javier Moreno Valera (Silla, 9 ottobre 1974)
Oggi parleremo uno dei pacchi più pesanti presi dal Milan dell'era Berlusconi, un ragazzo spagnolo che ancora oggi i tifosi rossoneri si chiedono chi lo abbia visionato, ma soprattutto chi lo abbia portato in quella maglia cosi gloriosa, che era del mitico Weah e di tanti altri che sono stati sotto la Madonnina e anche come abbiano fatto i dirigenti a pagarlo a peso d'oro un giocatore cosi,ma conosciamolo meglio.
<a href='http://www.fidelityhouse.eu/index.php?referral=3&code=hezuconabepu'>iscriviti a Fidelity House</a>
Questo fu il misterioso caso di Javi Moreno. Spagnolo di belle speranze, dal girovita piuttosto rotondetto, nacque calcisticamente nelle famosissime giovanili del Barcellona: famosissime ora, visto che a quei tempi non è che sfornassero dei fenomeni. Ed effettivamente Javi Moreno, o “El Raton”, come lo chiamavano i suoi tifosi per via della faccia da ratto delle fogne, non impressionò poi granché i dirigenti blaugrana, tanto da venire scaricato senza mai esordire nella squadra A, già nel lontano ‘96. Cordoba, Yeclano, Alaves (ma solo di passaggio) e Numancia furono le squadre che questo attaccante brutto e panciuto frequentò prima di tornare, stavolta in pianta stabile, all’Alaves. Attaccante, ma solo sulla carta, il “Rattone” era un losco individuo dalle dubbie abitudini alimentari: non esattamente un bomber (qualcosa come 12 gol in 4 anni), già a 17 anni poteva esibire una panza che successivamente Ronaldo gli avrebbe copiato spudoratamente, senza nemmeno un grazie. Brutto come la fame (sensazione che evidentemente il Rattone non aveva mai provato) Javi Moreno era tozzo, tarchiato, lento, stempiato, dotato di occhi vitrei da sorcio, di un naso da strega e di un sorriso così sbilenco e forzato che avrebbe fatto scappare a gambe levate qualsiasi essere dotato di senno. Assolutamente indegno di calcare non solo i verdi prati dei campi di calcio, ma persino quelli del parco dietro casa sua, nel 98, in seguito ad un viaggio a Lourdes, venne inspiegabilmente miracolato: quell’anno, a Numancia, riuscì nell’impresa di segnare ben 18 gol in 39 gare ufficiali. Per non parlare dell’anno successivo, il 2001, quando con l’Alaves (squadra passata all’epoca col soprannome di “Corte dei Miracoli”) rischiò addirittura di vincere la Coppa UEFA in finale col Liverpool. Ma siccome al dio del calcio piace scherzare, ma solo fino ad un certo punto, non bastarono le 6 reti nelle 8 partite europee (di cui ben due in finale, nel giro di 3 minuti) per assicurare a questo sgorbio il suo primo trofeo.
Bastarono però, insieme al titolo di capocannoniere della Liga, per convincere Galliani che il Rattone potesse essere l’acquisto giusto per fare da vice al nuovo arrivato Inzaghi, cosa che oggi potrebbe suonare come una clamorosa bestemmia, ma che all’epoca fu presa seriamente in considerazione. Strappato all’Alaves per la mostruosa cifra di 32 miliardi, con un biennale netto da 5 miliardi a stagione per 3 anni, El Raton divenne rossonero. Persino il Barcellona, interessato a riportare lo sgorbietto a casa (ogni scarrafò è bello a mamma sò), di fronte a tali cifre preferì rispondere con una sonora pernacchia, e fece bene.
“Sono molto felice di trovarmi a Milano e di poter giocare nel Milan. Ho scelto questi colori perchè questo è un grande club con grandi ambizioni. Ho preferito l'Italia ad altre soluzioni che mi avrebbero portato ad altri grandi club spagnoli: non ho resistito al fascino del vostro campionato”. Quando Moreno parlava di colori, si riferiva a quello delle lire italiane: Diciamo, infatti, che lo stipendio che gli garantiva il Milan era quasi il doppio di quello che erano disposti a sborsare i catalani, alla faccia del fascino del nostro campionato. L’ultima sua dichiarazione, come di consueto, finirà per rivelarsi un porta sfiga di caratura infernale: “Spero di poter giocare a fianco di Shevchenko e fare molti gol”. Nemmeno il tempo di dirlo, che il povero Pippo finirà in infermeria per tutta la stagione, sostituito da chi? Dal topastro di fogna ovviamente. Pellegatti non oserà mai chiamarlo così, preferendo il soprannome “Topo Gigio”, più sobrio ed elegante, ma questo non cambierà la sostanza: per i tifosi fu letteralmente un dramma vederlo arrancare sinuoso per il campo, col suo pelo nero e ispido, con i dentini di fuori, alla ricerca di un tozzo di formaggio da addentare. Terim, che strano a dirsi lo adorava, non a caso venne rispedito in Turchia a calci in culo, sostituito da Ancelotti, che fu costretto ad utilizzarlo a sprazzi a causa della morìa degli attaccanti rossoneri.
Alla fine furono 9 i gol segnati dal topastro in 27 partite ufficiali: 2 in campionato, 4 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA. Numeri che potrebbero sembrare non troppo negativi per uno che veniva bollato come portatore sano della peste bubbonica, ma che per questo potrebbero ingannare. I 2 in campionato furono infatti segnati entrambi contro un Venezia totalmente allo sbando, che nonostante tutto era persino riuscito a giocare alla pari coi rossoneri, non meritando il 4-1 finale: in quella partita Javito, dopo la prima marcatura, litigò furiosamente con la curva rossonera, rea di non adorarlo al pari di Van Basten. Sembra ancora di vederlo lì, sul prato, mentre corre e sputacchia parolacce in spagnolo verso i suoi sostenitori, portandosi le mani dietro quelle orecchie enormi e pelose, mostrandole polemico verso un pubblico già abbastanza inorridito. Per poi scusarsi miseramente dopo aver segnato il 2 gol. Ma il pubblico di fede rossonera non era l’unico ad odiarlo: lo spogliatoio l’aveva escluso per via della sua imponderabile scarsezza, del suo ostinarsi a non voler imparare l’italiano e della sua ferrea convinzione di essere un fenomeno. Durante gli allenamento a Milanello, i compagni facevano a gara per azzopparlo, mentre il Topo corricchiava svogliato per i campetti con quella sua pancia ballonzolante ed irritante: ci andò vicino soprattutto Martin Laursen, che passò alla storia per una serie di interventi omicidi con cui bersagliò il poveraccio per un’intera settimana, nel tentativo di fargli saltare il derby della Madonnina. Le altre reti, soprattutto quelle europee, furono inutili ai fini del conseguimento del risultato. L’unica, degna di tale nome, fu la punizione che permise al Milan di sconfiggere per 2-1 la Lazio in Coppa Italia. Proprio in quel periodo Javito venne addirittura convocato dalla nazionale spagnola, con cui arriverà ad esordire pochi giorni dopo. Nonostante questa improvvisa grazia, la dirigenza milanista non ci pensò due volte, ed in estate lo rispedì a calcioni in Spagna.
La destinazione del topastro fu l’Atletico Madrid dell’allora presidente Jesus Gil, ex-politico nonché ex-carcerato di grande fama: in Spagna, i migliori complimenti che venivano spesi per questo grande uomo erano “razzista”, “corrotto”, “sessista”, “omofobo”, “assassino” e “nazista”. Non si sa quali affari legassero il Milan all’Atletico Madrid, ma sta di fatto che la squadra spagnola diventò una colonia di ex-rossoneri a tutti gli effetti: oltre a Moreno, gli spagnoli acquisteranno dal Milan anche Albertini, José Mari, Coloccini e Contra. In particolare, suscitò grande curiosità nel mondo del calcio il prezzo che il Milan riuscì a scucire all’Atletico: ben 25 miliardi per un giocatore ampiamente bollito alla tenera età di 27 anni. Una cifra che riuscì bene o male ad indorare quel suppostone grigio-topo costato 32 miliardi solo 12 mesi prima. Inutile sottolineare che Javito non lasciò il segno nemmeno all’Atletico (29 gare in due anni, 5 gol), il quale ci mise poco a sbolognarlo in prestito al Bolton che, per la cronaca, non lo riscatterà nemmeno. L’ultimo club pseudo-prestigioso che provò a puntare su questo topo oramai attempato fu il Saragozza: fu in quell’anno che, durante un’intervista al quotidiano spagnolo AS, Moreno decise di spalare pupù a profusione sul Milan, accusandolo di essere una squadra di dopati. “La Serie A non è pulita come si pensa. Quando ero al Milan giravano strane pillole, ed ho visto con questi occhi più di un giocatore sottoposto a strane flebo negli spogliatoi durante l’intervallo”. Il topastro continuava così: “A Gennaio, contro l’Udinese, doveva giocare Roque Junior, che però si rifiutò di fare una flebo e venne mandato in tribuna, con la minaccia di essere ceduto ad un club minore”. Inutile dire che nessuno lo prese sul serio, anche se queste parole lo fecero diventare un’icona negli ambienti anti-milanisti per eccellenza: il sorcio divenne il paladino degli onesti, taciuto perché portatore di scomode verità, almeno stando a sentire gli interisti, o gli juventini, alle prese con lo scottante caso Davids.
Dopo il Saragozza fu un continuo peregrinare in formazioni semi-professionistiche: Cordoba, Ibiza, Lucena, ed infine il sacrosanto ritiro dal mondo del calcio. Mondo in cui speriamo non metterà più piede, con le sue zampine pelose e malauguranti.
fonte:DNAMILAN
Iscriviti a:
Post (Atom)